Le origini della Pitina sono legate all’esigenza di conservare la carne nei mesi autunnali e invernali, in zone tradizionalmente povere, come quelle delle valli a nord di Pordenone. Gli ingredienti di carne sono camoscio, capriolo, pecora e capra che erano gli animali cacciati o allevati nella zona. Le pecore e le capre non venivano uccise appositamente, visto la loro preziosità, ma venivano usate quelle che morivano per cause naturali o malattia.
La pitina aveva delle varianti peta e petuccia, che differivano dalla pitina per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni che erano più grandi.
L’animale veniva disossato e la carne triturata finemente . Alla carne si aggiungevano sale, aglio, pepe nero spezzettato.
Con la carne macinata si formavano piccole polpette, si passavano nella farina di mais e si facevano affumicare.
Pur nel rispetto della tradizione la pitina oggi è prodotta secondo proporzioni di ingredienti stabilite (una volta le proporzioni erano dettate dalla disponibilità della materia prima) e viene aggiunto del grasso di suino che smorza il sapore intenso della carne di capriolo, capra o pecora. L’affumicatura si realizza con diversi legni aromatici, a volte mescolati tra loro (ma con la prevalenza del faggio).
A differenza di un tempo la pitina si mangia cruda a fettine, dopo almeno 30 giorni di stagionatura, in alternativa può essere cotta nell’aceto e servita con la polenta.